AROUND THE WORLD

Primo aprile 2020.
Fuori, infuria in tutto il mondo il coronavirus.

Miliardi di persone relegate in casa nel tentativo di estinguere questa pseudo forma di vita che si replica solo parassitando il sistema di replicazione di una cellula vivente degli umani.
Che fare nel frattempo?
Tra le altre cose, carcerati come siamo e senza la sicurezza di ritornare alla vita, possiamo scrivere intanto le nostre memorie. Come Silvio Pellico.
Vorrei qui proporre una delle mie esperienze di trent’anni fa (1990) quando il mondo era diverso da ora e vissute con occhi di bambino.



AROUND THE WORLD

Paolo del piano di sopra scende e mi vede di partenza a cavallo della moto, uno zaino e una borsa legati dietro.
         Anche quest'anno ti farai qualche centinaio di chilometri -
         Ah sì, qualche centinaio. Poi ti racconto -
Moglie e figli in auto e io dietro in moto verso Molina di Fiemme, in vacanza.
Ma gia il giorno seguente scendo a Trento da Carlo, mio fratello.
Prendiamo il treno e in 13 ore siamo a Francoforte. Poi in metrò all'aeroporto. Il mega aeroporto di Francoforte. Una città di terminals, negozi, freeshops, scale mobili e nastri trasportatori, gente di tutte le razze (etnie per i puristi). Un formicaio! Giriamo con la cartina.
L'aereo parte alle 14,30. Air India. Aereo con le bugne sulla carlinga, forse di terza mano..
 E'la prima volta che viaggio in aereo e rimango fortemente impressionato dalla senzazione da astronauta che provo a 10000 m di altezza, al di sopra delle nuvole dove splende sempre il sole. L'orizzonte leggermente curvo della Terra, la temperatura esterna di 50 gradi sottozero e niente aria respirabile!
Sotto si distinguono bene fiumi strade veicoli in movimento. In fondo 10 chilometri seppure in altezza ti portino in un ambiente così ostile, misurati in orizzontale non sono un granchè. Una tranquilla pedalata in bici.
Rimango incollato al finestrino a rimirare i paesaggi sempre diversi che scorrono sotto come in un film.
Dalla Germania popolosa ed efficiente, paesini campi boschetti campi paesini, ogni tanto un laghetto, si passa di brutto alle pianure a sud della Polonia con quelle sue cave che squarciano il territorio, estese coltivazioni che sembrano in stato di abbandono, case e abitati disseminati qua e la prevalentemente lungo strade e fiumi. Poi alcune alture dove risaltano bene vie sterrate che tagliano i boschi.
Ancora pianure. Il Danubio. Altre alture. Regioni sempre piu deserte.
Faccio fatica a distinguere i piccoli abitati che denotino presenze umane.
Presso il Mar Caspio la foschìa inghiotte tutto. Il Lago d'Aral invece si lascia vedere in tutti i suoi contorni anche perchè il sole è al tramonto.
La Terra ruota verso est, l'aereo vola verso est, in un attimo si fa buio.
Mi rilasso sulla poltroncina.
Le hostess indossano il “sari” lasciando vedere la schiena nuda e il pancino grassottello. Veramente sono tutte un po grassottelle, secondo i canoni di bellezza di un popolo di morti di fame.
Siamo due pallidi fratelli seduti tra una folla di barbuti personaggi col turbante, bambini che strillano, malesi arabi indonesiani, razze mai viste ma proprio per questo in un'atmosfera fortemente esotica che mi riempie di curiosità e interesse.
A cena ci arrivano pietanze sconosciute, sapori forti e sconcertanti, salsine alle quali bisogna abituare il palato un po alla volta ma tutto pian piano va giu, anzi diverse cose risultano stimolanti e decisamente appetitose.
Volare con Air India è un'avventura nell'avventura.
Dopo mezzanotte ora locale atterriamo a Bombay.
Come scendiamo dall'aereo veniamo investiti da un caldo umido soffocante, carico di miasmi ignoti che arrivano a ondate. Attraversiamo un lungo cunicolo dalle spettrali luci verdi tra due ali di soldati in mimetica che imbracciano un fucile mitragliatore . In sala bagagli mentre aspettiamo che il nastro scorra, notiamo una polverosa catasta di valige, sacchi, zaini, addossata a una parete e alta fino al soffitto.
Proviamo a mettere il naso fuori dalla hall- aria condizionata- dell'aeroporto, e siamo subito attorniati da una miriade di poveri diavoli con proposte di hotel, taxi, moneychange, lustrascarpe e chissà cos'altro. Facciamo appena venti metri scavalcando corpi che dormono avvolti in quattro cenci, che rientriamo precipitosamente nel fresco della hall!
Aspetteremo così l'alba sulle dure sedie della sala d'aspetto, lo zaino sulle ginocchia, la testa appoggiata sopra e un giornale a schermo della luce.
All'alba ci infiliamo in uno scassatissimo pulmino con uno sparuto gruppetto di europei altrettanto sconcertati e ci rechiamo in centro.
Lungo la strada si allungano interminabili file di baracche fra immondizie di ogni genere. Dappertutto a quell'ora si vedono bambini accucciati tra i cespugli a culetto scoperto con un barattolo o un secchiello di fianco. Qua e la stazionano le famose Vacche Sacre, mucchietti di ossa perfettamente in sintonia con i loro vicini umani.
In città è tutto un suonare di clacson di miriadi di improbabili automobili di un'altra epoca, pure queste emananti l'aspetto da zombi dei loro conducenti.
Bombay è sempre stato un porto commerciale, data la sua posizione sull'oceano indiano così di fronte a Africa e Arabia. E deve aver conosciuto tempi piuttosto fortunati a giudicare da alcuni palazzi e monumenti. Solo che al momento, viste le condizioni in cui versano tali edifici, la curva del benessere della città dovrebbe toccare un'indice tra i piu bassi. Perchè ?
Posso azzardare un'ipotesi schematica:
Sovrapopolazione
Fuga dalle campagne
Declino di attività commerciali precedenti (Compagnia delle Indie)
Scarse risorse interne
Scolarizzazione carente
Comunque Bombay è in continuo divenire. A seconda della situazione mondiale potrà ancora succedere di tutto.
La gente in maggioranza si arrabatta, cerca di sopravvivere in ogni maniera, è in continuo fermento. Dai grandi negozi fino all'ultimo banco di ambulante è tutto un pulsare, una lotta quotidiana tesa verso un destino migliore.
 Lungo un marciapiede c'è una cassa in legno delle dimensioni di un metro cubo. Su un lato sono inchiodate alcune suole di scarpe in gomma. Da un'apertura spuntano due gambe nude. E' il calzolaio che dorme!
Piu avanti un'altra cassa con due ciotole di acqua sopra e di fianco il barbiere in piedi sta facendo la barba a un cliente con un vecchio rasoio.
In fondo alla scala sociale,i mendicanti.
Spuntano dappertutto. Se dai qualche rupia a uno ti trovi subito attorniato da altri dieci. Allora acceleri il passo, ti metti a correre e siccome tu hai mangiato e loro no, riesci a distanziarli solo che piu avanti la scena si ripete.
Ad una bimba dell'età apparente di tre anni abbiamo dato un panino , prosciutto e formaggio. E' partita di corsa con una torma di altri bambini dietro. Si saranno mangiati panino bimba e tutto!
Accovacciata sotto il portico di un antico monumento una ragazzina macilenta dagli occhi infossati vende alcune cartoline allineate sul pavimento. Gliene comperiamo tre e le diamo una banconota da 5 rupie(1 rupia 70 lire) che lei bacia e ribacia con gli occhi al cielo ringraziando chissà quale divinità del folto pantheon Indù.
Chiediamo informazioni a un giovane dalla grossa testa e due gambe cortissime che lo costringono a muoversi curvo, usando le braccia come uno scimpanzè. Come si raddrizza risulta alto come Carlo.
Un altro, con le gambe amputate all'altezza del bacino, usa le braccia per spingersi avanti appoggiato su una tavola con quattro ruote di monopattino.
Una povera diavola con un neonato al seno- piccolissimo tutto grigio, vivo o morto?- ci si è appicicata addosso e non ci lasciava piu finchè un suo concittadino uscendo dal suo negozio non è venuto a cacciarla via in malo modo!
Succede questo infatti. Gli indiani, diciamo benestanti o perlomeno quelli che hanno un po di salute e un qualche lavoro, vedrebbero bene il fatto che venisse a finire questa piaga dell'accattonaggio, anche a costo di un'ecatombe. La legge della giungla. Chi non è in grado di sopravvivere è giusto che soccomba.
Non scuciono una mezza rupia per i loro poveri manco se li ammazzi, nonostante che alcuni di loro vadano in giro con collane e catene d'oro del peso di mezzo chilo!
Così i poveracci all'ultimo stadio campano di turisti e opere assistenziali finchè una mattina non saranno raccolti cadaveri, dai monatti di manzoniana memoria, da sotto un portico e amen.
Per la notte torniamo alle sedie dell'aeroporto.



Il giorno dopo altro aereo. Verso Madras.
Da quel po che riesco a intravedere tra squarci di nuvole direi che l'India è una grande pianura di polvere, sabbie e stoppie bruciate. Anche Madras sta in pianura, affacciata sul mare sparpagliata in piccole casette a semicerchio attorno alla costa.
Sull'oceano, aguzzando bene lo sguardo dei miei occhietti miopi, riesco a distinguere il bianco dei frangenti. Poi le Andamane una collana di isolette dalle bianche spiagge.
Nuvole, nuvole e improvvisamente una schiarita e un gruppo di grattacieli. Singapore!
Che contrasto Singapore! Appena sbarcati chiediamo per un campeggio.
Si mettono a ridere. Chiediamo bici a noleggio e ridono ancora piu forte.
Abbiamo capito. Ok, hotel. E gia dall'aeroporto, efficientissimo l'ingranaggio entra in azione: telefonata di prenotazione, taxi, boy dei bagagli.
Taxi di lusso. Sedili orientabili, aria condizionata, autoradio. Ci torna in mente il taxi di due giorni prima che ci riportava all'aeroporto di Bombay. Traballante, senza vetri, i sedili sfondati, tutto ammaccato. L'autista ad ogni semaforo spegneva il motore per risparmiare benzina.
La nostra stanza sta al settantacinquesimo piano dell'Hotel Furama, un grattacielo che si perde lassù in alto e di lassù il quartiere vecchio di Chinatown appare come in fondo ad un pozzo le cui pareti sono costituite dai palazzi che le stanno attorno.
E pensare che a Singapore mi aspettavo di vedere le giunche davanti ad una cittadina di casette basse, in base ad una foto sul mio atlante delle elementari.
Invece ecco qua: metropoli porto franco all'insegna del businnes.
Il paradiso dell'elettronica applicata. Scale mobili in aria condizionata dappertutto, perfino sui ponti che attraversano le strade.
E negozi, negozi,oro, videocamere per quattro soldi, abbigliamento d'alto bordo, le migliori firme italiane. Cinesini con la calcolatrice sempre in mano, forse nascono così. Pare che lavorino 24 ore su 24 ognuno nel suo scintillante negozio colmo fino al soffitto di merci.
Mangiano svelti con i bastoncini tra un cliente e l'altro da certi vassoietti preconfezionati che basta solo passare in un fornetto a microonde.
Sono tutti tirati a malta fina, perfettamente sbarbati, camiciole sempre fresche, cravattine. Noi in confronto siamo dei buzzurri, dei barbari, con il nostro naso esagerato, i capelli in disordine, barbuti e sudati.
Un europeo deve rendersi conto che a un asiatico appare sempre in una luce piuttosto spiacevole. Hanno un'altra sensibilità. Per esempio all'aeroporto non abbiamo visto le montagne di wurstel e cotechini esposti a Francoforte. Sarebbe disdicevole, almeno qui a Singapore. Sono riservati, non gridano, mai sguaiati.
 Però quando addentano un cliente lo inchiodano con mascelle da mastino! Difficile liberarsi. Ne sa qualcosa Carlo.
Inoltre, cosa strana, tra tante sofisticherie sussurri e inchini, la vetrina di un farmacista esponeva in primo piano plastici e gigantografie di formazioni emorroidali, prolassi dell'utero e altre cose misteriose. Mah..
La vecchia Chinatown sopravvive solo a livello antiquariato. Un solo grattacielo si ingoierebbe tutto il quartiere gia al primo piano. Tuttavia è qui che ci si fa un'idea della Singapore di pochi anni fa, tra bancarelle, odori di spezie, tempietti con candeline e bastoncini profumati, pagode draghi e via enumerando.
Rimaniamo colpiti dal sistema di ponteggi rizzati su alcune facciate da restaurare. Alla faccia dell'antinfortunistica! Una griglia di canne di bambù legate una di seguito all'altra su,su fino alle tegole. Niente tavole e passerelle. Si direbbe un graticcio per rampicanti. Infatti quello che si arrampica è un operaio con un secchio di colore in mano. Sale su una traversa orizzontale, aggancia il secchio su quella superiore, sale , riaggancia e in cima si mette a cavalcioni, con una mano si tiene con l'altra pittura!
Se cade e si rompe c'è un altro miliardo di cinesi che aspettano un lavoro che non sia il contadino.
All'angolo dell'isolato su una colonnina telefonica c'è scritto Free Loca lCalls. Capito? Nell'ambito della città si telefona gratis. Tanto chi telefona lo fa per affari o turismo, la stessa cosa, e tutto fa mucchio.


Due giorni di sosta e si riparte. Sydney Australia.
Peccato che il volo si svolga di notte. Riusciamo solo a gettare una breve occhiata all'alba su una immensa distesa rossa. Poi nuvole foschia in quota e sotto, prima dell'atterraggio, un'altra rapida veduta di colline, boschi, laghi e infine la costa.
A Sydney sostiamo solo il tempo per aspettare il volo per Melbourne. E a Melbourne si scende solo per cambiare aereo e destinazione: Hobart Tasmania.
Beh, ma che ci andiamo a fare a Hobart sull'altro emisfero in luglio, in pieno inverno?
Andiamo a trovare Roger e Peter, due amigos che ho conosciuto otto anni fa quando giravo con il camper sull'isola di Krk in Jugoslavia.
Per otto anni li ho tenuti in caldo a suon di cartoline e telefonate, perchè non si sa mai nella vita!
Così eccoci a Hobart. Fa un po fresco, è sera, ma non piu di tanto. In fondo è come essere alla latitudine di Roma, dall'altra parte dell'equatore.
Roger gentilmente viene a prenderci all'aeroporto e poco dopo siamo a casa sua dove c'è anche Peter. Grandi feste! Giro di bottiglie. Vocabolari italiano-inglese.
Fatto stà che pur volendo per l'occasione far le ore piccole siamo talmente cotti dal viaggio che crolliamo letteralmente sul letto che gli amigos ancora piu gentilmente ci mettono a disposizione.
Ci svegliamo con il sole gia alto sulla nostra...destra?!
 Si. Perchè da qui rivolti verso l'equatore a nord, il sole sorge a destra e tramonta a sinistra.
Usciamo nel giardino in maniche di camicia. Temperatura direi primaverile. Attorno e nell'orto diverse piante sono ancora vredi nonostante gli alberi spogli. Rimangono alcuni pomodorini “di novembre” e qui sarebbe gennaio.
Siamo in collina circondati da casette in legno -sistema anglosassone- che scendono fitte giu a contornare la bellissima baia di Hobart.
Roger e Peter per i giorni in cui resteremo loro ospiti ci hanno gia preparato un calendario fitto di appuntamenti, escursioni e gite come meglio non avremmo potuto sperare dalla migliore agenzia della città. Non solo, ma ci accompagnano pure in giro in auto saltando giornate di lavoro e altri impegni. Troppo!
E così ci facciamo una solida cultura di questa isola, estrema propaggine a sud dell’Australia dalla quale si è staccata 10 milioni di anni fa secondo la teoria della Tettonica a Zolle.
Un’isola di eucalipti e di marsupiali evolutisi in diversi rami collaterali rispetto ai loro cugini del continente, o addirittura unici sopravissuti di specie altrove scomparse, come il Diavolo e la Tigre di Tasmania, alcuni opossum, canguri delle rocce e via catalogando.
Prima della scoperta l’isola era abitata da tempo immemorabile da alcune tribù di aborigeni. Poi la solita storia: malattie, eccidi, deportazioni, fino al 1947 quando morì l’ultima sopravissuta di nome Truganini, pare di tubercolosi.
La Tasmania è pressochè disabitata e in gran parte adibita a parco naturale. Sulla costa occidentale e per metà del territorio le perturbazioni dell’oceano indiano  scaricano in continuazione tutta l’umidità che qui si accumula contribuendo al perpetuarsi di larghe fasce di foresta pluviale.
Siamo andati a vedere da vicino. Una distesa di alberi, prevalentemente eucalipti a perdita d’occhio e nel folto incredibili fusti di felci arboree da dove ti aspetteresti di veder sbucare un brontosauro.
Impossibile uscire dai sentieri per addentrarsi all’interno. La foresta che cresce e muore ricadendo su se stessa fa sì che il terreno non abbia nessuna consistenza così da rischiare di sprofondare di sotto quando meno te lo aspetti.
Stormi di pappagallini svolazzano dappertutto. Corvi. Grosse oche che fanno croc-croc con una voce tremenda. Canguri Wallobee che si stringono infreddoliti a gruppetti.



 Il famoso Tasmanian Devil, cattivissimo, ti staccherebbe un piede con un morso e caccia degli urli da far accapponar la pelle. Eppure a vederlo sembra un cagnolino nero, neppure troppo veloce.
I genitori di Roger stanno in campagna. Si sono disboscati un bell’appezzamento, costruito una casa in legno e stanno organizzando una piantagione di meli.
Poco piu in là sulla collina vive una certa signora Gianna di Trieste, moglie del direttore di un quotidiano di Sydney per il quale lavora anche Roger.
 E’ qui da 35 anni, dice che si trova bene, anzi benissimo e non se ne andrà piu. Tuttavia ogni anno torna nella sua Trieste e in quella occasione non manca di fare una capatina anche a Merano che considera la cittadina piu bella del mondo. Guarda caso!
Un giorno andiamo a Port Artur, un vecchio penitenziario e primo insediamento dell’isola.
Qui venne trasferito il famoso capitano Blight, quello dell’ammutinamento del Bounty, a dirigere il carcere e qui finì i suoi giorni.
Visitiamo celle, cameroni, baracche che testimoniano della misera vita dei condannati e mi sembra strano il modo in cui qui tengano ad un posto del genere, finche Roger mi spiega che questo in fondo è l’inizio della loro Storia in questa terra, anche se risale solo a 200 anni fa.
Un'altra volta invece saliamo sul Mount Wellington che sovrasta la città dai suoi 1500 metri di altezza. Di sera. C’è neve e qui l’inverno si fa veramente sentire. Safari fotografico a caccia di opossum nelle piazzole di sosta. Uno si è rifugiato in un contenitore dei rifiuti e soffia come un matto. Ha i piccoli.
Hobart vista da quassù così illuminata e distesa attorno alla baia mi ricorda Napoli.
A proposito di opossum, da noi nelle fiabe dei bambini si parla di leprotti e orsetti. Qui invece è tutto a base di koala, cangurini, opossum e echidne.
Lungo le strade si vedono spesso animali uccisi dalle auto in corsa. Gatti? Lepri? No. Opossum.
Un giorno incontriamo un’echidna. Una specie di grosso riccio con aculei larghi un dito.
Ci attraversa la strada trotterellando per i fatti suoi. Blocchiamo l’auto e la circondiamo per scattarle alcune foto ricordo, ma lei indispettita da tanta sfacciataggine si dà subito a scavarsi un tunnel e non c’è verso di rivoltarla tanto si aggrappa al terreno e alle radici sottostanti!
-Ci perdoni Signora Echidna –
Ogni sera a casa di Roger abbiamo visite, specialmente ragazze. Sembra un porto di mare. Secondo me si è sparsa la voce e vengono a vedere quei due fenomeni di italiani piombati lì in questa stagione. Così ogni volta si fa mezzanotte e oltre.
Il quinto giorno, come i pesci, cominciamo a puzzare un pò. E’ora di alzare i tacchi, anche perché non siamo nemmeno a metà strada e il viaggio è lungo.
Grandi feste di commiato, scambio di indirizzi e si riattacca con gli aerei. Hobart, Melbourne, Sydney.


 Da Sydney decolliamo martedì sera. Quando atterriamo a Honolulu alle Hawaii è martedì mattina! Com’è questo fatto?
E’ che abbiamo passato la famosa linea del cambiamento di data (come Phileas Fogg) riportata su tutti i mappamondi, così invece dei cinque giorni previsti ce ne faremo sei.
Posso dire forte che le Hawaii sono state la tappa che più mi ha rapito il cuore e la mente. Forse perchè ero prevenuto contro questo arcipelago USA, immaginato tutto regolamenti e consumismo.
 Invece il contatto diretto con il clima, le spiagge, gli scenari di una bellezza rara, le onde, il surf, le palme… Insomma, inutile descrivere o cercare di immaginare, bisogna esserci stati!
D’accordo che Honolulu è una selva di grattacieli tra una ragnatela di strade sopraelevate a sei corsie, ma già sulle spiagge di fronte comincia l’incanto.
Incantati siamo rimasti anche quando abbiamo noleggiato una macchina per girare l’isola di Oahu. Aria condizionata, cambio automatico, servosterzo, computer velocità etc. Il tutto per pochi dollari. Non è vero che gli USA sono cari. I prezzi dico. Anzi, oltre alla benzina diverse cose costano meno che in Italia.
In auto abbiamo potuto visitare l’isola in tutta la sua estensione. Un’isola molto verde in virtù delle puntuali piogge quotidiane sulle alture -4000 m- dove si condensa l’evaporazione dell’oceano circostante. Ciò favorisce oltre a una vegetazione rigogliosa, ottimi raccolti di agroalimentari.
Oahu è un’isola di lusso. Campi da golf, villette nel verde, piscine. Oahu trasuda dollari. Sulla costa di nordest dove picchia la maggior parte delle perturbazioni e non è protetta da scogliere le onde arrivano spettacolari e imponenti. Roba per surfisti duri.
Dopo Oahu, aereoplanino a elica e andiamo a visitare Molokai, l’isola dei lebbrosi, la piu tranquilla delle Hawaii.
Già il primo giorno facciamo conoscenza con un hawaiano del posto cominciando con una piccola litigata. E’ andata cosi:
Fatta la spesa a Kaunakakai capoluogo- 4 case e un negozio- andiamo a fare pic-nik sotto una palma di cocco in riva alla laguna presso una casetta apparentemente disabitata.
Invece dopo un po esce un tipo basso, tarchiato, capelli lisci a caschetto, pelle scura.
Comincia a girarci attorno raccogliendo sull’erbetta rasata a prato inglese, foglie secche, carte e stagnole di formaggini. Poi ci apostrofa
 - Germany?-
-No non siamo germany- invasori di territori altrui.
- Comunist?-
Non siamo nemmeno comunisti, usufruitori sociali di proprietà private.
-Siamo italiani. Pensavamo che non ci fosse nessuno e comunque non avremmo lasciato cartacce in giro-
- Don't make rubbish! - ripete l’hawaiano, poi attacca con una lunga filippica dove infila dentro Gorbaciov, il Papa e chissà cos’altro.
Parla sempre lui. E’ un tipo allegro. Si chiama Larry. Originario delle Aleutine. Vuol sapere del nostro viaggio e infine ci offre il suo giardino per montare la tenda.
Senonchè abbiamo in programma di camminare un paio di giorni lungo la costa dell’isola
-Thank you. Sarà per un’altra volta-
Camminando così per Molokai facciamo conoscenza con le noci di cocco. Quelle verdi e grosse sono ottime da bere, altrettante borracce di bibita fresca. Basta solo praticare un foro triangolare con la lama del coltello -non hanno ancora guscio- e infilare una cannuccia. Tutte le altre, delle quali sono disseminate le spiagge, vanno lavorate un po in modo da togliere il grosso involucro esterno, allargare l’occhio del germoglio e infilare la cannuccia. Poi si rompe il guscio con un sasso e si sgranocchia la polpa bianca. Tra una noce e l’altra alterniamo manghi e papaie, tutti frutti a portata di mano.

Molokai è un’sola tranquilla, è piccola e poco abitata. Questo dipende forse dal fatto che fino al secolo scorso era adibita a lazzareto per i lebbrosi. Comunque sia è così ben conservata che diventerà parco naturale.
Per la notte montiamo la tenda fra le mangrovie di fronte a una spiaggetta che pullula di granchiolini tipici dei tropici, quelli che corrono di traverso in punta di piedi e con gli occhi fuori dalla testa.
Il giorno seguente incontriamo Larry che ha bisogno di una mano. Poco dopo mi trovo alla guida della sua scassatissima auto al rimorchio del suo traballante camioncino e Carlo seduto sul cofano tra una e l’altra con le gambe puntate in avanti a fare da amortizzatore, dato che mancano i freni.
 Attraversiamo in questo modo il paese di Kaunakakai e Larry grida a tutti che siamo i suoi cugini!
Questa sera dormiremo sotto la sua palma con doccia e bagno a nostra disposizione.


Tornati a Honolulu è doverosa una visita al museo Bishop, massimo centro di cultura polinesiana dove possiamo ammirare i famosi proa che si facevano 3000 miglia di oceano da un’isola all’altra quando in Europa i nostri si limitavano a costeggiare e tiravano le barche in secca per la notte.
Relax sulla Waikiki Beach, dove oltre alla moda del surf infuria pure lo jogging. Vecchietti e ciccione, cuffia stereo alle orecchie per non sentire la fatica, corrono allo spasimo al limite dell’infarto.
Ecco, dalle Hawaii non si avrebbe mai fretta di andarsene, per cui è con un certo sforzo che riprendiamo a esibire biglietti e passaporti sulle piste di volo.

Los Angeles. La città degli angeli che ci appare all’orizzonte immersa in una nuvola rosata, sembrerebbe giustificare in pieno il suo nome, se non fosse che il rosa è il colore dello smog!
Facciamo solo scalo e puntiamo San Francisco. A San Francisco abbiamo parenti. O meglio, si tratta di parenti della moglie di Carlo che, dopo essere venuti per tre volte a Trento in cerca delle loro radici e invitato tutti ad andare a trovarli, si dovranno beccare noi due che non centriamo per niente.
Comunque è gente che non si fa problemi. Lui ingegnere elettronico, fabbrichetta di computer, due Jaguar, una Jeep Cherokee, moglie-segretaria e una bimba di tre anni che gia fa pianoforte e francese. Villa holliwoodiana con stanza degli ospiti tappezzata di foto di R. Reagan con la loro bimba in braccio.
Anche qui riceviamo un nutrito programma di gite, escursioni per la città, i dintorni e California in generale.
Affittiamo un’altra incredibile automobile americana e partiamo alla ventura.
San Francisco, la città piu allegra di questo viaggio.
 A parte i recchioni- omosex- c’è in giro una certa aria di spensieratezza, forse dovuta al fatto di voler scongiurare la solita sensazione di terremoto incombente che aleggia nell’inconscio di ognuno. Oppure il fatto di vivere in queste casette variopinte in legno in stile Belle Epoque disseminate attorno alla bella baia.
Non so. Strano, perché con la nebbia che gravita quasi tutto l’anno sul Golden Gate all’imboccatura del porto e il freddo che scende ogni sera portato da una corrente artica che costeggia la California, ci sarebbe di che deprimersi il morale. Allegria di reazione?
In questa città abbiamo un bell’esempio di società multirazziale abbastanza ben amalgamata, anche se la maggioranza dei neri sta raccolta a Oakland, oltre la baia.
Inoltre qui c’è la piu grossa comunità cinese, tra le città d’America e anche un‘abbozzo di Little Italy.
Il porto è il posto piu caratteristico. Friggitorie di pesce, ambulanti, suonatori, virtuosi dell’aquilone acrobatico e il megashopcenter Ghirardelli. Centro d’arte.
Al museo navale chi ti scopro? La “Mermaid”. Una barca autocostruita di sei metri scarsi che nel 1965 in tre mesi di vela attraversò il Pacifico partendo da Osaka in Giappone. Skipper Keniki Horie. Per gli addetti un exploit di notevole portata. Esiste libro. Kodoku.
Poco oltre il Golden Gate visitiamo un parco di sequoie giganti. Settantacinque metri di rami che si perdono lassù nel cielo.
Usciamo dalla città e puntiamo le montagne di Yosemite attraversando una fascia desertica e rovente che corre lungo la California, dal paesaggio tipicamente messicano.
Sulle montagne ho un momento di depressione. Mi sembra di essere nelle nostre valli su strade che percorro tutti i giorni per lavoro. Fortunatamente ogni tanto a fare la differenza incontriamo piccoli abitati dall’aria molto far-west e finalmente Yosemite, il santuario dei free-climber d’America.
Half Dome, Sentinel Rock, El Capitan. Noi abbiamo le Dolomiti e il massiccio del Bianco ma bisogna dire che questi megablocchi di granito hanno il loro fascino e non sfigurano affatto.
Naturalmente mi produco subito in un numero di arrampicata libera su El Capitan e ci guadagno una bella grattata al gomito che ho ancora come ricordo.
C’è un campeggio. Si dorme per due dollari. Fra le tende è tutto un viavai di scoiattolini, razza Cip&Ciop, piu invadenti che mai, tanto che in ogni piazzola c’è una cassa in lamiera per tenere al sicuro i viveri.
Niente snack o ristoranti ma una macchina che distribuisce per un dollaro scatolette calde di carne, fagioli e altro. Roba da cow-boy.
Restando in tema, tra queste montagne ci sono posti tipo saloon dove si fanno colazioni fantastiche. Per sette dollari in due, ti arrivano dei vassoi con toast, sandwich, salsicciotti arrostiti, tegamino con uova all’occhio, il tutto annaffiato con una caraffa di caffè, modello Tex Willer, che una tipa continua a passare e riempire man mano che bevi.
Ci riportiamo verso la costa riattraversando la fascia di deserto. Aria condizionata al massimo. Colore predominante, giallo.
Tocchiamo il mare a nord di Los Angeles. Tocchiamo, è il termine esatto perché tentare di fare il bagnetto in quest’acqua di dieci gradi potrebbe rivelarsi un suicidio senza apparenti motivi. I surfisti -pochi- entrano con la muta e il cappuccio.
Invece si trovano a loro agio le foche e i pellicani che si tuffano a capofitto per procurarsi il mangime. Così è stato facile per l’amministrazione californiana dichiarare 100 chilometri di costa Parco Naturale.
A Monterey dormiamo in macchina. La cittadina sarebbe interessante ma di sera pioviggina e fa freddo. Telefoniamo in Italia da una colonnina sulla strada. America.
All’alba al posto del gallo, sono le foche col loro “oink-oink” che ci svegliano. Se ne stanno tra le barche del porto stravaccate su alcune piattaforme bisticciando per i posti.
Risalendo a nord scopriamo che le spiagge piu belle sono in prossimità di san Francisco.
I parenti insistono per offrire una cena, guarda caso, in un ristorante italiano dal nome  “Palermo”. Proprietario calabrese e cameriere toscano. Naturalmente Chianti. Ottima cena di commiato.

Il volo seguente ci scodella a New York. Abbiamo solo una giornata di tempo e un autobus ci porta a Manhattan. Come sbuchiamo nell’isola dal tunnel che le passa sotto la prima impressione è di squallore: strade dissestate tra mura scrostate di vecchi grattacieli, enormi paraventi che non lasciano vedere il sole. Nessuno in giro. Sembra di essere in un film di fantascienza dopo l’olocausto nucleare.
Poi giri l’angolo e ti trovi a fendere la folla nella Quinta Avenue, i negozi piu esagerati del mondo, grandi firme italiane.
E le torri del World Trade Center. Un ascensore ti spara in 58 secondi a 460 metri di altezza e di lassù guardi quasi con compassione quel nano dell’Empire State Building o quella figurina laggiù con una fiaccola sul braccio teso. Il ponte di Brooklyn si allunga sull’acqua come un chewing-gum.
Tornati giu gironzoliamo tra un’esagerazione e l’altra. C’è un cupolone di cristallo, gigantesca serra dove crescono le palme con potenti riflettori sopra sempre accesi. I pavimenti in marmo vogliono imitare quelli di San Pietro.
E fuori nella darsena cosa dondola? Lo “Star and Stripes” il catamarano che ha vinto la Coppa America, esposto a pavoneggiarsi in tutta la sua gloria.
Poi scendi certe scale che si infilano sotto terra e ti ritrovi con le piastrelle che ti cadono in testa dalle pareti, fioche lampadine da bunker, ogni tanto passa sferragliando un metrò. Un drogato steso per terra con le convulsioni, forse sta stirando le zampe, la gente va e viene, nessuno lo caga!
Fuori alcuni negretti si contorcono in continuazione come robot ingoiatori di monetine. Due ragazze in una Jaguar si abbandonano senza ritegno ad una quantità di piccanti effusioni…Ma sono due ragazze o uno è un ragazzo? No sono due ragazzi e uno è travestito da ragazza, oppure l’altro… mah, non ci capisco niente !
Sarà un luogo comune ma di New York si puo dire tutto e il contrario di tutto.



E via. New York-Londra.
 Piccolo contratto tra Continental e Lufthansa e tre ore dopo siamo a monaco di Baviera.
Alla stazione ci troviamo fra una marea di profughi turchi polacchi e tedeschi dell’Est. Pure noi sembriamo dei profughi con i nostri zaini, tenda e sacco a pelo in spalla, ed è stato qui che Carlo si è beccato le cimici.
A Innsbruck dopo un piatto di wurstel e crauti ci sentiamo decisamente a casa.
A mezzanotte siamo a Trento e la moglie di Carlo si meraviglia di trovarci così abbronzati e in forma.
Il giorno dopo risalgo in moto a Molina di Fiemme. Stanno tutti bene, i bimbi sono contenti di rivedermi e anche dei regalini.

E tutto torna come prima, è come se non fosse successo niente.
Dov’è che sono andato?
Ma c’è la noce di cocco, ecco dove sono andato! Originale di Molokai, Hawaii!
Ce la sgranocchiamo in quattro e quattr’otto, sicura e tangibile testimonianza che non ho sognato!
Quando entro dal cancello di casa giu a Merano, a cavallo della moto, uno zaino e una borsa legati dietro, Paolo del piano di sopra mi chiede:
-    Ciao da dove vieni, dove sei stato? -
-    E’una storia lunga. Te la scrivo su un quaderno -




5 commenti:

acquatica ha detto...

Per ora ti lascio che siete a Los Angeles, voglio centellinarlo come se fossi veramente in viaggio. Altri tempi, si viaggiava in modo diverso, e forse c'era anche meno diffidenza. Mi chiedo come sarà quando (non voglio dire "se"!) riprenderemo a viaggiare. Esistono i viaggi pre e post internet e, immagino, esisteranno quelli pre e post covid19...

Sempre e comunque buon vento!

Anonimo ha detto...

Si

Maurizio ha detto...

Accipicchiolindincibaccotuttodunsorsotiè !!

E quindi pure un giro del mondo contro mano con ala rigida ti sei sparato !!
Questa non la sapevo.
Fatico a collocarlo nel tempo, ma a giudicare dalle torri gemelle e qualche altro dettaglio direi qualche luna fa... ma tanto che importa ? Il tempo è circolare e quindi .... “circolare gente !”
Tanta roba, soprattutto di sti tempi che il viaggio più lungo che si può fare è uscire di casa per andare nell’orto, se hai la fortuna di averlo.
Ma tu pensa se non avessi mai messo quel maledetto annuncio su Bolina per l’Atlantico nè.... ??? Stanotte avrei dormito di sicuro di più!!
Felice di perdere il sonno per queste emozioni, felice di averti conosciuto ed aver incrociato le tue rotte, caro amico, guru, comandante, fomentatore di sogni,
Notte va


Inviato da iPhone

Unknown ha detto...

Caro Comandante, avevo letto i viaggi per mare ma questo mai! Complimenti per come vedi le cose e le scrivi.
Stefano

Unknown ha detto...

Ciao Claudio, sempre bellissimi i tuoi articoli !!
Massimo.