NON SOLO MARE

SETTE GIORNI IN UNGHERIA

Tutti son capaci di montare grondaie in luglio.
Ma prova un po in gennaio, con pacchi di neve sul tetto e i ghiaccioli che penzolano giu dai bordi !
Le mani gelate, ingrippate dal freddo da cui ti scappano le viti che non senti piu al tatto mentre cerchi di puntarle su una trave dello spiovente, in precario equilibrio su una ballerina scala di alluminio.
Alla casetta di Walter, in Ungheria.
Ci arrivammo dopo un lungo viaggio in auto seguendo il confine meridionale dell' Austria.
C' era il sole e come passammo la frontiera - ormai aperta - con l' Ungheria, mi parve di essere capitato nel paese di Biancaneve e i sette nani.
Foreste e campi, campi e foreste e ogni tanto un micropaesino di basse casette ad un piano, quadrate, fatte con lo stampino, ognuna col suo cortiletto dietro e la buca della posta davanti, come la casa di Paperino.
Molte con la scritta ELADO, vendesi. Perche' ? Crisi economica ungherese ?
Scendemmo a sud lungo il confine con la Slovenia fino a Lenti. Di qui a Nova e alla periferia di Nova ecco la casetta di Walter. Pure questa a un piano ma con una scaletta a chiocciola che porta ad un soppalco nel sottotetto adibito a schlafzimmer. Una enorme stufa di maioliche a centro casa, divoratrice vorace di legna e piena di fessure da dove il fumo si ostina a fuoriuscire per non essere cacciato dal camino nel gelo esterno.
Le grondaie. Andammo a comperarle in un grosso centro commerciale di Zalagerzeg, cittadina moderna quasi come altre in Europa, con tanto di fast food Mac Donald e WI FI.
Nel grande negozio di ferramenta Walter si muoveva con sicurezza: dalla sala giardineria, alla sala motori, alla falegnameria e poi una porta blu che dava su un cortile esterno pieno di diversi alti scaffali di manufatti in ferro zincato.
 - Ecco li le grondaie -
 - Cerchiamo qualcuno del personale -
 - Ma...teufel !  Manca la maniglia ! - All' esterno nel cortile la porta blu e' priva di maniglia.
 - Oh, Scheisse ! -
Bussiamo ripetutamente. Chiamiamo. Ci sara' qualcuno dall' altra parte ! Nada.
Siamo bloccati nel cortile. No cellulare. Il cortile e' contornato da pareti in grossa rete di ferro alte sei metri e con un giro di filo spinato sopra. Telecamere attorno.Ci vedranno ? Passa il tempo.
Allora mi risolvo: con facile arrampicata di terzo grado ma pungendomi alquanto sul filo spinato, scavalco la recinzione, mi calo dall' altra, faccio il giro del fabbricato, rientro in negozio e vado a recuperare Walter. Il tutto con un vago senso di ansia. Vuoi mai che venga scoperto sul piu bello come ladro e spedito in ferie in Siberia !
Velocemente combiniamo l' acquisto e via !
Le telecamere intanto hanno registrato tutto e ancora oggi in Ungheria stanno cercando un tipo piccoletto con gli occhiali e un colbacco di orso in testa.
Bene. Comincio' a navicare e cominciammo ugualmente a montare grondaie.
Il giorno seguente idem e con la neve ancora piu alta.
Andando a far legna in legnaia, Walter mi fece notare un grosso nido di vespe, un arnia rotonda come una grossa anguria, appesa alle travi del soffitto.
 - Sono vespe lunghe un dito. Tre di quelle ammazzano un cavallo ! Mia moglie ne ha avuto il terrore per tutta l' estate scorsa. Che si puo fare ? -
Mumble, mumble.  Salii con la scala e piano piano avvolsi il nido in un sacchetto di nylon. Poi con un seghetto staccai il tutto dalle travi.
La mia intenzione era portarlo al limite del bosco oltre le vigne su un cespuglio di rovi e il freddo a venti sotto zero avrebbe addormentato le vespe per sempre.
Ma Walter era di altro avviso: cosparse il nido di benzina e vi appicco' fuoco. Questo divampo' subito alto e violento e noi stavamo li affondati nella neve in questo paesaggio grigio e silenzioso ai margini del bosco come in uno strano rito medievale. Assassini.
Finito con le grondaie ripartimmo col brutto tempo verso la seconda casa di Walter che sta a due ore e mezza di auto al centro dell' Ungheria, presso Bondovar.
Ancora foreste, campi, foreste e micropaesini silenziosi e apparentemente deserti. Ancora neve mista pioggia, i tergicristalli in moto perpetuo.
In mezzo ad una brughiera un gruppo di una ventina di cervi si muovevano a rapidi scatti tesi e all' erta per il rumore del nostro mostro meccanico. Una cicogna che malauguratamente aveva perso l' ultimo volo verso il sud se ne stava rattrappita su una zampa sola nel suo nido di sterpi in cima a un palo della corrente.
Si vide un uomo presso una casa isolata su una collina, fermare la sua bicicletta dal telaio grosso e le ruote piccole, con due cassette sui portapacchi una davanti e una di dietro, fermare la bici su un cavalletto doppio, prendere qualcosa da una cassetta e salire a piedi la collina affondando nella neve. Il postino ungherese. Ne vedemmo poi diversi, uomini e ragazzine. Le bici, tutte uguali.
Molti alberi risultavano parassitati dal Vischio. Il vischio e' un cespuglietto sempreverde con delle bacche bianche traslucide e gelatinose. Da queste si puo ricavare una colla che viene poi cosparsa su rami dove si posano gli uccellini che qui rimangono appunto invischiati. Uccellagione. Polenta e osei. Quando i semi delle bacche del vischio finiscono in vari modi tra la corteccia di rami di altre piante, ecco che emettono una radicetta e cominciano a succhiare linfa dalla pianta madre. Ma quando diventano troppi la pianta madre muore. Allora non hanno "capito" che un bravo parassita per essere tale non deve far morire la pianta che lo tiene in vita. Altre specie lo hanno capito, fino a far diventare questa convivenza non piu un sistema parassitario ma un sistema simbiotico. Do ut des.
Bisognerebbe spiegarlo ai nostri politici, troppo tesi a succhiare, succhiare, riprodursi e succhiare finche non ce ne sara piu per nessuno ! A questo proposito ho trovato e fotografato di recente su un quotidiano questo trafiletto di un cittadino:" devo riparare un vaso rotto. E' possibile sapere dai politici quale tipo di colla usino per restare attaccati alle loro poltrone ? Sarebbe la soluzione ideale per tutti i problemi di bricolage." Roberto Mosetti. Cusano (UD). Temo che la formula di questa colla sia top secret tanto che se la passano di padre in figlio e solo ad amici fidati.
A Bondovar niente lavori. Solo controllo e ripristino impianto acqua, luce riscaldamento, insomma le funzioni vitali di una casa abitata.
A Bondovar ci sono le Terme. Come a Merano, con tanto di vasche di acqua calda, fredda, piscine fumanti per nuotare all' aperto circondati dalla neve, saune e salette adibite a varie terapie, per cui stavamo in mezzo a scassati vecchietti, vecchietti noi stessi.
Da queste parti come a Nova, Walter ha degli amigos. Uno di questi e' un tale Engelbert tirolese di val Venosta, ex falegname in Germania con dodici dipendenti, finito malamente in Ungheria a causa delle donne e dell' alcool. Con 500 euro di pensione qui riesce a campare abbastanza bene ( lo stipendio di un postino sta sui 380 euro in fiorini ungheresi) con casetta propria un cane lupo e una compagna locale d.o.c. amante pure lei della bottiglia.
Ci invitarono gentilmente e fu un problema respingere una sequela di bicchieri offerti ogni cinque minuti. Poi capito' che la compagna mise un ferro da stiro rotto sul tavolo tra Engelbert e il suo bicchiere. Lui provo' ad armeggiere un po con i pezzi della rotellina del termostato ma subito sposto' tutto di lato.
 - Spaeter, piu tardi - disse
Al che ci provai io e in trenta secondi sistemai la cosa. Non l' avessi mai fatto ! A tutti i costi la sua compagna volle che accettassimo due bottiglie di vino rosso, fatto da loro, che doveva servire a scaldarci, diceva, dai rigori dell' inverno ungherese. Ok.
Non sapeva pero' che Walter per scaldarci usava altri sistemi: aveva due coperte magiche ! Da queste esce un filamento bianco terminante con due spinotti che lui, recitando una arcana formula in tedesco, infila nel muro. Allora ti metti sotto tali coperte e subito ti invade un piacevole tepore. Magico ! Puoi anche regolarne il calore facendo scorrere un cursore su e giu su una scatoletta.
Eppure Walter continuava a tirarmi in ballo un altro tipo di coperta, umana, diceva; di una particolare morbidezza e di una consistenza da rimbalzo. Mah...

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Ah !...La Montagna!

Arrivammo alla cengia. Da qui si ergeva liscia e incombente la famosa parete Preuss.
Per un po restammo a naso in su a rimirarla, cercando di prefigurarci possibili vie di salita.
Bruno l' aveva gia fatta diversi anni prima ed ora nel giorno del suo cinquantesimo compleanno la considerava un regalo quanto mai apprezzato.
Intanto la bella giornata serena che avevamo iniziato all' uscita dal rifugio Brentei andava deteriorandosi rapidamente. Brutte nuvole salivano dal fondovalle, il sole era sempre piu coperto e un vento freddo gia ci faceva accapponare la pelle. Bisognava muoversi.
- Mi pare che si attaccasse da qui...- Bruno si porto verso la meta' della parete cercando di ricordare.
- e lassu' a quindici metri dietro quella gobba dovrebbe esserci un chiodo.-
- Bene, se vuoi posso fare il primo tiro - accennai speranzoso.
Gia dalla base del Campanile eravamo saliti a tiri alternati e Bruno poteva ormai fidarsi: quando al secondo tiro, all' inizio, davanti ad un passaggio di quarto grado se ne stava meditabondo a considerare vari appoggi e prese azzardai sfrontatamente:
- Ma io qui vado su come un grillo.-
Un' occhiata perplessa,
- Vai allora.-
Infatti superai il tratto senza problemi, leggero,arrampicando come sulle uova.
- Sali per minimi appigli eh? -
Ora, all' attacco della Preuss, mi sentivo carico, pronto all' azione, formicolii alle dita. Via. Cominciai la danza. La roccia era compatta, verticale, gli appigli seppur minimi sembrava mi venissero incontro metro dopo metro.
Teso come una corda di violino, lucido e concentrato su ogni movimento che doveva essere perfetto. Proibito l' errore. Proibito perdere la presa. L' abisso si spalancava subito sotto.
Io e la parete come due amanti in una dimensione tutta nostra. Niente esisteva piu attorno. Neanche sentivo le indicazioni di Bruno giu in basso, sempre piu lontane. Contava solo il movimento, la progressione fluida e magica su prese minuscole, buchetti monodito.
Capivo perfettamente la passione - insana per molti - di Paul Preuss che per primo aveva salito questa lavagna di calcare ai primi del ''900 , assolutamente in libera, slegato fino alla cima e ridisceso allo stesso modo mentre due suoi amici, lui e lei, amoreggiavano su un lato della cengia.
Era salito col suo stile leggero e sicuro usando un paio di scarpette di corda, antesignane delle odierne slic.
Io invece stavo salendo con gli scarponi pesanti da ghiacciaio e da ramponi. Nelle foto fatte da sotto si vede la roccia da dove si staccano, appena appoggiate sulle punte due suole dal battistrada nero con al centro il giallo del marchio vibram.
Arrivai al chiodo. E poi alla prima sosta e recuperai Bruno.
Devo aver avuto il cielo negli occhi perche' mi lascio' fare tiro dopo tiro, tutta la parete da primo.
Intanto il tempo era volto decisamente al brutto. Grossi banchi di nuvole nere avvolgevano il Campanile e gia qualche rombo di tuono esplodeva in lontananza. Bisonava far presto. L' avventura stava prendendo una piega sinistra.
All' ultimo tiro mi pareva di sentire le campane suonare a morto: don! don! don!
Peggio ! Piu salivo nella nebbia e piu chiaramente le sentivo ! Assurdo !
Ed ecco che sbucato sullo stretto pianoro della cima rimango imbambolato davanti ad un anello di ferro fissato in orizzontale, dove all' interno un tubo con alette mosso dal vento, picchiava in continuazione. Don ! don ! don !
Comincio' a piovigginare. Poi a piovere e grandinare !
- Presto, presto, la doppia nell' anello di calata ! Non stiamo qui a fare da parafulmini ! -
Cannonate e crepitii di mitraglia del temporale ormai sopra di noi !
E giu' a rotta di collo di 40 metri in 40 metri facendo arroventare i discensori !
A toccare la roccia bagnata, pizzicorini elettrici sempre piu intensi ci attraversavano il corpo.
- Metti che una saetta ti becca in pieno. Quindici milioni di volt ! -
- Appunto, come te la cavi ? -
- Niente, vai diretto in Paradiso lungo la scarica e di te non rimane che un carboncino nero e maleodorante. - Allegria !
- L' unica povera soluzione sarebbe portarsi in luogo aperto e sedersi sulla corda e lo zaino, che facciano da isolante. Via da rocce e insenature a meno che non siamo grotte profonde e asciutte.-
Bruno la sa lunga. Cinquanta anni di esperienze vissute sui monti, diverse vie classiche e non, ripetute anche in solitario e altre aperte ex novo tipo gli 800 metri del Macaion.
Proprio sul Macaion pero' in una precedente occasione mi diede da pensare in quanto a fortuna e sicurezza: ci stavamo calando in doppia quando anche in quel caso un temporale era in arrivo. Accelerare la discesa ! Bruno pianto' un unico chiodo, normale, anodizzato, di 10 centimetri, in una fessura orizzontale. Ando' dentro quasi tutto e cantava bene. Passo' la corda nell' asola e scese veloce. Ma nei momenti in cui si staccava a balzi dalla roccia vedevo il chiodo che si fletteva e si piegava in modo sempre piu preoccupante.
- Vai piano ! - gridai.
- Cosa ?! - Ormai non ci si sentiva neanche piu, le parole si perdevano nella valle.
Un solo chiodo, miserello, che sembrava volesse spezzarsi o uscire dalla fessura da un momento all' altro. E sul quale stavo pure io in "sicura ".
Staccai il mio moschettone e rimasi abbrancato alla roccia finche' Bruno, allestita la sosta di sotto mi urlo' - Parti ! -
Lo raggiunsi arrampicando delicatamente in discesa cercando di non mettere troppo in tensione le corde.
- Cosa fai ? Mollati ! -
- Col cavolo ! Non hai visto il tuo chiodo di sopra. Da brivido ! -
Ecco, sono qui a raccontarla. Anche quella volta e' andata bene.
Eppure Bruno, a capo del Soccorso Alpino per un certo periodo, e' un uomo che mette la sicurezza in montagna in primo piano. Tant' e' vero che di ritorno da un' altra scalata, una via di camini sul Sass del Noev presso Corvara aperta da Haini Holzer, non mancava di passare le doppie su un cordino che univa due chiodi o anche tre dove la roccia era troppo friabile. Da manuale.
Transeat.
Arrivammo infine alla base del Campanile bagnati fradici. Il temporale stava passando veloce e c' eravamo beccato il peggio proprio in parete. Pareva quasi che ci avesse presentato il conto. Non si sale gratis il Campanil Basso !
Altissimi ringraziamenti, comunque.
Seduti su un grosso pietrone liscio e dando fondo a viveri e beveraggi, lo rimiravamo da lontano ,quasi con amore, mentre il sole rifaceva capolino tra le nuvole.

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Oberland Bernese, Eiger, cresta Mitellegi: nell'«età dell'infarto» un'ascensione quasi solitaria (agosto 2001)
 
Credevo di esserne fuori ormai, dopo una vita impiegata a valutare oculatamente i rischi che comportano certe escursioni e viaggi di terra e di mare. Tanto che mi vantavo del fatto di sapermi garantire un buon margine di sicurezza per portare a termine diversi progetti. Mi rimaneva però il dubbio se, invece di una sana maturità acquisita con il tempo, non si trattasse piuttosto di rincoglionimento senile.
Poi di punto in bianco, a 53 anni, mi faccio L'Eiger da solo e senza corda. L'Eiger, la montagna assassina, lapide perenne del fior fiore dell'alpinismo mondiale. Fiumi di inchiostro sono stati versati sui primi disgraziati tentativi di conquista della famigerata parete Nord. Sui primi successi ottenuti a prezzo di indicibili sforzi, protratti per diversi giorni bivaccando su una parete battuta da continue scariche e repentini cambi di tempo. Sugli immancabili incidenti, come il caso dell'italiano rimasto a penzolare congelato in parete per due anni, attirando la curiosità morbosa di una miriade di turisti che affollavano le terrazze con binocolo degli hotel nel sottostante paesino di Grindelwald.
E così anch'io, ammaliato da tale fama, non ho potuto resistere alla tentazione di mettermi in viaggio per la Svizzera.
La vigilia di ferragosto del 2001.
Da Merano sono quattro passi. Nel senso di quattro valichi stradali. Una giornata di macchina tra le alte cime delle Alpi occidentali.
Vado.
Verso sera trovo alloggio in un tipico ostello per alpinisti nei pressi della stazione dei trenini a cremagliera di Grindelwald.
Sopra il paese gia incombe nelle brume della sera l'Eiger, più sinistro che mai.
Ancora sinistro lo rivedo il mattino dopo, sentendomi come schiacciato da quella enorme parete sempre in ombra, armata dei suoi micidiali lastroni di ghiaccio in attesa dell'incauto.
Tuttavia esiste un trenino che ne percorre l'interno in galleria, con diverse soste nei punti più spettacolari, fino ai 3500 metri dell'Osservatorio della Jungfrau.
Interessante è la sosta in piena parete Nord dove ci si può raggelare alla visione dei neri strapiombi sottostanti.
Alla sosta successiva scendo da solo per non perdermi lo spettacolare panorama dell'Eismeer, il mare di ghiaccio.
Scendo attraverso corridoi e cunicoli scavati nella roccia fino a sbucare in pieno sole davanti a un abbacinante mondo fatto di neve, ghiaccio e crepacci che caoticamente si abbracciano e si sovrappongono nella loro inesorabile discesa verso le foschie delle valli sottostanti. Wunderbar!
Me ne sto lì, zaino in spalla, la neve fino alle ginocchia, quando dietro di me si affacciano dal cunicolo quattro giovanotti sui vent'anni. Fuseau neri, scarponi da ghiacciaio, attrezzatura di alta quota. Quattro guide tirolesi. Sono diretti alla Mittellegi Hütte, un piccolo rifugio in legno che si vede stagliarsi lontano sul crinale Est dell'Eiger. Guarda caso, siamo sullo stesso percorso. Ci avviamo così, dapprima aggirando vari crepi seminascosti dalla neve e poi su ripide roccette. Slegati, veloci, ognuno sulla sua cengia. Proibito scivolare. Ti troveresti a raschiare il pendio fino alle orecchie.
Alle 9:30, appollaiati sul balconcino del rifugio, contempliamo il mondo sottostante, sorseggiando dalle borracce.
Wir gehen nach Mittellegigrad. Kommst du auch mit uns?”
Beh, devo confessare che l'idea di farmi questa cresta Est fino alla cima dell'Eiger mi frullava in un angolino del cervello fin dalla sera prima, avendone parlato dettagliatamente con un alpinista conosciuto all'ostello. L'unico inghippo, la corda. Non mi ero portato la corda, indispensabile attrezzo per le calate in doppia da fare lungo la cresta ovest e proseguire in scavalcamento verso il Monch Hütte.
Ma ecco che questi baldi giovani, forniti di tutto, mi risolvono il problema. Per di più, la giornata è splendida, non una nuvoletta in giro ed è ancora relativamente presto.
Vado.
La cresta si presenta dapprima come un facile sentiero che segue il pendio sud, poi si comincia a zigzagare tra diversi massi scalandone ogni tanto qualcuno e man mano che si sale di quota, l'arrampicata si fa sempre più impegnativa. Ognuno per sé. Niente sicure. Aspettando alla base delle torri che la fila si snoccioli avanti, ne approfitto per girare dei filmati. Accade così che perdo tempo nel riporre le cose e rimango distanziato dal gruppo. No problem, la via è a senso unico, ci ritroveremo sulla cima.
Se non che i quattro si aiutano a vicenda nei passaggi più ostici, mentre io devo arrancare per decine di metri tirando di braccia su certe gomene posizionate a penzoloni lungo le torri più ripide.
Rimango indietro, libero e giocondo, a gestirmi l'andatura come meglio mi aggrada.
Dalla roccia si passa alle prime creste di neve. Salendo, queste si fanno sempre più imponenti e aggettanti sul lato sud. In diversi punti la piccozza sprofonda senza sforzo e ritirandola lascia un buco dal quale si vedono gli strapiombi sottostanti!
Occhio! Mi ritrovo a procedere con estrema cautela come su un'asse d'equilibrio fatta di neve ghiacciata. Duemila metri di vuoto ai lati. Ancora non ho messo i ramponi. Non vorrei che mi scappassero i quattro soci davanti. Non sanno che sono privo di corda e che facevo affidamento sulla loro.
Salita superba. Adrenalina alle stelle.
Verso le 13 raggiungo la cima.
Soddisfazione immensa. Mi sento sulla cima del mondo. I soci stanno già scendendo ma non me ne frega niente. Posso anche morire qui. A 53 anni, nell'età dell'infarto, sulla vetta dell'Eiger.
Sarebbe come morire ‘nel mentre’ con una bella donna.
Mi autofilmo, stagliato con la piccozza verso il cielo come Tenzing Norgay sull'Everest.
Poi mi affaccio verso l'Eigerjoch, giù in basso a sudovest. Eh sì, bisogna proprio calarsi.
Nello zaino ho 20 metri di cordino da 9. Sta lì per le estreme emergenze. Gli aggiungo altri 6 metri di cordino da 6, praticamente un laccio da scarpe, doveva servire per tagliare anelli da prusik.
Totale 26 metri, in doppia 13. Su calate da 40.
Infilo il primo anello. Al nodo del giunto mi fermo appeso ad un prusik per fargli scapolare il discensore, avendo prima cercato sotto di me uno spuntoncino di roccia dove appoggiare la corda per la discesa successiva. Ed è così che di spuntone in spuntone, arrampicando delicatamente in discesa per non pesare troppo sulla corda e sugli appoggi, riesco piano piano a scendere dalla montagna chiamata ‘assassina’. Denigrazione assolutamente gratuita.
I quattro soci mi guardano dalla forcella sottostante, forse trattenendo il fiato. Ora si rendono conto che sono malamente attrezzato e che avrebbero dovuto aspettarmi.
Nach Walsche art.
Ma devono avere una fretta indiavolata perché appena fuori pericolo, riprendono a galoppare verso il Monch.
E io dietro. Comincio ad essere piuttosto cotto. E ancora devo percorrere tre interminabili denti di una cresta di rocce friabili che spuntano dalle crepacce terminali di due ghiacciai che si dipartono ai lati.
E ancora una lunga traccia sulla neve che costeggiando l'ombra del Monch, mi porta verso l'imbrunire, finalmente, a sbattere gli scarponi sull'impiantito del rifugio omonimo.
E' fatta. 11 ore di sgroppata. Nell'età dell'infarto.
Ma non me ne frega niente.
Ora posso anche morire.
Ciao.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

HEINRICH HARRER, Parete Nord. L'eroica conquista dell'Eiger: una straordinaria avventura umana, Milano 1999.
TONI HIEBELER, Eiger: parete Nord. La morte arrampica accanto, Bologna 1966.
AUDREY SALKED, Atlante dell'alpinismo, Novara 1999, pp. 54-57.


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Scialpinismo e vela oltre il Circolo Polare Artico organizzato da Paolo Cavagnetto guida alpina di Biella.
 
12-4-97
Arrivo a Bodo. Ore 18,30. Paesaggio:
- Ma qui è inverno! - Constatazione di Lucia.
Siamo in otto. Provenienti da diverse regioni d' Italia.
Due ore di furgone, su strade innevate costeggiando fiordi ghiacciati, sotto cupe montagne coperte di gelo. Senza catene. Imbarco a Ornes1 su cutter 13 m NAMASTE', skipper Frederic Maunier
(France) da 10 anni in zona, dando il cambio ad una comitiva della settimana precedente.
Ornes. 4 case, un porticciolo, una banca, emporio, bar. Tutto chiuso ma con luci accese - qualcuno vive - all'interno. Piove.
 
13-4
A motore verso Glomfjorden. Attracco al pontile2 della vecchietta. Una signora che vive sola, nessuno attorno. Unica compagnia, un setter alle prese con una zampa di renna.
Prima gita, per gradire, verso altura di 1000 e rotti metri.
Nebbia e vento. Ottima neve, cartonata, a palline come il polistirolo nelle vetrine di Natale. Rebaltoni e casini al ritorno nel boschetto di betulle.
Verso sera comincia a nevicare furiosamente. Pernottamento al pontile.
 
14-4
Sorpresa! Il sole; e la barca coperta di neve. Foto.
Attraversamento in 5 ore su neve fresca da Glomfjord a Bjarangfjord all'appuntamento con Fred che si fa il giro via mare.
Bellissima sciata, nonostante i voli, sopratutto su pendii punteggiati da bassi alberetti, da prendere in gimcana. Paesaggi da favola: isole e promontori ammantati di bianco si perdono in lontananza verso il mare.
Fred arriva, punta deciso verso la banchina e, proditoriamente, si va ad incastrare con il bulbo su un fondo di ghiaia. Orrore! Poi i turisti vengono recuperati col canottino. Molto romantico. Alle effusioni di Patrizio - un tosco-siculo geneticamente molto abbronzato - e Beatrice, le battute si sprecano. Qualcuno menziona le gondole e il Moro di Venezia.
Navigazione a vela, solo genoa, verso Holandsfjord. 7,5 nodi.
Si passa la notte attraccati al pontile di una cava di ghiaia in piena attività nonostante la neve.
Una spettacolare lingua di ghiaccio scende dallo Svartisen, secondo ghiacciaio d'Europa per estensione.
15-4
Gita sul ghiacciaio. Tempo buono, calma di vento. Si costeggia un lago. Sci in spalla su placche di granito. A passo costante si sale per vallette spingendo sui bastoncini. Aria immobile. La fila si allunga. Cala la nebbia e ci si perde di vista. Non rimane che seguire la traccia dei primi.
In coda alla fila comincia a serpeggiare un certo malcontento.
- Ancora 5 minuti - propone il Cava, guida della spedizione.
5, 10, 15...e finalmente l'ombra di una costruzione si delinea nella foschìa: il rifugio-albergo Takeheime.
Serata di gala a lume di candela. La stufa al massimo.
 
16-4
- Avete voluto il rifugio ? Beccatevi queste raffiche forza nove Beaufort! - Bloccati. Un giorno e due notti.
- Volevano farsi la cima e la traversata! Ha! ha! - Eolo e i Trolls della zona si divertono come matti.
 
17-4
Un illusorio rialzo del barometro mette tutti in azione. Ci si prepara alla discesa.
Ma il tempo è rimasto come il giorno prima. Visibilità zero. Raffiche violente ci mitragliano la faccia con pallini di ghiaccio.
Si scende a spazzaneve, attenti a non perdersi di vista, orientamento a bussola e GPS. I miopi devono togliere gli occhiali, seguire vaghe ombre nella bufera e fidarsi ciecamente della Guida. Discesa avventurosa in condizioni limite. Alcuni balzi di roccia richiedono l'uso di corda e ramponi, calando assicurati uno alla volta.
Nel primo pomeriggio siamo tutti 8 in barca. al calduccio.
Mare mosso. Navigazione Radar. Infine Fred si infila nella strettissima insenatura del porticciolo di Halsa il cui ingresso compare all'improvviso dal nulla nella burrasca. Fantastico !
Ragazzi, alla prossima barca dobbiamo farci il Radar.
 
18-4
Engavogen. Altro minuscolo abitato da dove si parte per un'altra gita. Sotto naja si chiamavano uscite di pattuglia.
Ma ormai facciamo parte del paesaggio, perfettamente a nostro agio, come le renne. Sali, scendi, togli le pelli, metti le pelli. Merendina nella baita. A capofitto tra le betulle dai germogli induriti dal gelo. A proposito, qui le piante respirano per 4 mesi all'anno e poi si fanno una lunga apnea per gli altri 8 di cui 6 al buio. Bel posto.
A fine giornata si riparte a vela. Turni al timone tra me e Rob. Poi Fred conduce la barca in una incantevole baietta, tutta per noi, dando fondo alla ruota. La ciliegina sulla torta.
19-4
Ultima escursione. La piu bella. Siamo persino gratificati da un sole splendente come non l'avevamo mai visto. Dall'alto il panorama è superbo, in tre tonalità nette: il bianco delle montagne, il nero del mare, l'azzurro del cielo. E l'avorio di Namastè, la barca, cigno immobile al centro della baia.
Questa sera si torna a Ornes.
Poi in Italia. Sia pure a distanza di 22 anni, è la seconda volta che vengo in Norvegia. Per cui, come si dice:
" non c'è due senza tre
... e la quarta vien da sè ! "


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-MEDUSE

-Lei è uno dei medusologi più noti al mondo. (Intervista a Ferdinando Boero )

 Qual è la ragione per cui ha dedicato buona parte della sua vita allo studio delle meduse? Vuole condividere con noi qualcosa su di loro che secondo lei nessuno sa?-

Le meduse sono gli animali più perfetti tra quelli attualmente viventi. Le prime tracce fossili di meduse risalgono a 600 milioni di anni fa. Gli altri animali cominciano a lasciare tracce 500 milioni di anni fa. I fossili più antichi di meduse sono molto simili alle specie di oggi. Una struttura che sia passata indenne attraverso 600 milioni di anni di selezione naturale non può essere definita in altro modo che perfetta! In altre parole, se Dio ha fatto l’essere più perfetto a sua immagine e somiglianza, allora Dio è una medusa!

 EUREKA titolo dell’ultimo saggio scritto da E.A.POE. dice:Le parole “Dio” Spirito” e alcune altre di cui esistono equivalenti in tutte le lingue, non è l’espressione di un’idea, bensì lo sforzo di formulare un’idea. Esso rappresenta lo sforzo possibile per arrivare ad una concezione impossibile. L’uomo aveva bisogno di un termine attraverso il quale segnalare la direzione di questo sforzo, la fitta nebbia dietro cui sta, per sempre invisibile, l’oggetto di questo sforzo!

 Non esisti. Sei solo l’espressione evanescente e cangiante di onde elettromagnetiche distribuite in pacchetti di energia (quanti). E forse neanche quello. Tutto è illusione e nel contempo realtà.

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MANOLO

Una serata con Manolo trasportati nel suo magico mondo verticale.
Un ragazzo, Maurizio Zanolla, dai capelli che cominciano a prendere il colore della neve ma dall'animo fresco e giovane, teso a perseguire un suo antico sogno: esplorare fino ad estremi limiti la dimensione del vuoto come solo pochi eletti dell'arrampicata su falesia e vie classiche hanno saputo fare.
Manolo ha incominciato ad arrampicare quasi per caso seguendo un suo amico su una palestra di roccia. Ed è stata subito una rivelazione - Ho visto che mi riusciva bene, in modo istintivo e mi è subito piaciuto – confida.
Da quel giorno si puo dire che ha bruciato le tappe, percorrendo da autodidatta tutte le fasi dell'alpinismo, con attrezzature di altri tempi come scarponi a suola rigida, moschettoni in ferro e abbigliamento pesante.
Raggiunta una buona forma di allenamento e conoscenza della montagna ha partecipato anche ad una spedizione in Himalaya alla “conquista” di un ottomila ma, considerando le varie attività che si praticano in montagna si è specializzato in arrampicata pura.
Pura come fu concepita da Paul Preuss e Winkler gia un secolo fa e propugnata poi da altri grandi come Maestri, Messner, Mariacher e cosi via.
Un'arrampicata tesa alla ricerca del limite di quanto un umano puo innalzarsi su una parete che a prima vista appare assolutamente impossibile e dove solo un ragno, munito però del suo filo di sicura, osa avventurarsi. Ecco, L'uomo Ragno.
Ma non solo. Manolo in piu di un'occasione, documentata e non, ha sfidato la Grande Signora salendo slegato, solo, lui e la parete e riuscendo sempre grazie alla sua eccezionale forma psicofisica.
Qualcuno dirà, anche grazie a una buona dose di fortuna. Certo, ma la fortuna aiuta gli audaci e gli audaci da Ulisse in poi in ogni campo hanno fatto la Storia del mondo.
Si dirà pure che un tale modo di scalare non è molto educativo per le giovani leve- e perche no? - puntualizza Manolo – chiunque nella vita si senta spinto a un qualche limite e abbia la forza e la preparazione per affrontarlo, perche no?
Giusto. E nel suo diritto. Anzi, è una delle ultime libertà che ci restano in questa società imbavagliata da centomila regole, dettami e impedimenti di ogni genere.
Nella sua ricerca della perfezione, dell'appiglio piu piccolo, nonostante i suoi exploit fuori dalle righe, Manolo con il tempo si è trovato a considerare con benevolenza persino i famigerati chiodi a pressione, gli spit. Ma solo in falesia salvaguardando le vie classiche aperte a suo tempo da fuoriclasse simili a lui.
Quindi la storia si ripete e procede per gradi sempre piu arditi e non sappiamo le sorprese che ci riserverà domani.

Manolo. Pietra miliare dell'arrampicata divenuta con lui una forma d'arte!
( Nell'autunno del 2019 mi sono fatto con lui il Cimon della Pala)




VIRUS IDROFOBIA
di Andrew J. Murray
Idrofobia significa paura dell' acqua.
Che c' entra con questo sito, ondesuonde, dove l' acqua è l' elemento portante ?
Niente. Ma l' argomento è troppo interessante e prelude ad altre osservazioni sull' evoluzione delle miriadi di forme di vita su questo pianeta.

Il virus della rabbia ha la capacita di trasformare il più placido dei vostri animali di compagnia in un mostro schiumante e violento che tenterà di azzannarvi con pazza ferocia !
Il virus della rabbia è stato uno dei flagelli piu temuti della storia umana.
Gia nel 1804 gli esperimenti del medico tedesco Georg Gottfried Zinke indicavano che il virus si trova in concentrazioni elevate nella saliva di un animale infettato. Questo germe agisce anche incrementando la produzione di saliva, aumentandone la quantità. Ecco perchè i cani rabbiosi sbavano.
Pasteur fece un passo avanti quando, negli anni 80 dell' ottocento, dimostrò che anche il cervello è infettato dal virus. Nulla di ciò è frutto del caso. Due secoli di ricerche hanno finalmente stabilito che il virus della rabbia ha una propensione diabolica a trasferirsi dalle mascelle di un animale infettato ad un soggetto da questi morsicato e da qui al cervello della vittima trasformandola in una furia che aggredisce a sua volta a morsi !
Con un trucco dell' evoluzione il virus manipola il cervello dell' ospite per garantirsi una trasmissione efficente.
Oggi la rabbia uccide piu di 59000 persone ogni anno. Ma grazie alle vaccinazioni e alla quarantena degli animali infettati, nei paesi sviluppati non suscita piu terrore. Anzi, i neuroscienziati stanno trasformando questo germe maligno a vantaggio del genere umano.
Il virus della rabbia è abile a farsi strada dalla sede del morso fino al cervello saltando furtivamente di neurone in neurone, sfuggendo così alla rilevazione del sistema immunitario.
Il gruppo di lavoro Center for Neural Circuits di Londra, e altri hanno sfruttato e perfezionato questa capacità per visualizzare le connessioni tra neuroni.
Il cervello umano è costituito da miliardi di neuroni, ciascuno collegato a migliaia di altri. Creare una mappa di questa intricata rete di fili è essenziale per capire come genera sentimenti e comportamenti. Usando varietà geneticamente modificate del virus della rabbia si possono osservare quale genere di segnale riceve un particolare tipo di neurone, come i segnali elettrici viaggiano dall' occhio al cervello e quale tipo di neuroni controllano la postura per impedirci di cadere. Questo settore è agli esordi ma informazioni del genere potrebbero aiutarci a capire e forse a trovare rimedi per malattie neurologiche come il Parkinson.
All' inizio il morso inietta virioni nel tessuto muscolare. Capsula a forma di proiettile contenente un filamento di RNA ( ribosio nucleico acido) e proteine, il virione della rabbia è rivestito da una proteina appuntita, una glicoproteina. Il rivestimento induce con un trucco i motoneuroni della sede dell' aggressione a far accedere il virus. I motoneuroni emettono sostanze che fanno contrarre i muscoli e sono situati alla fine di una catena di altri neuroni collegati al cervello della vittima, la destinazione ultima del virus.
Per essere precisi, la glicoproteina si lega a un recettore su una terminazione sinaptica: un punto dove un neurone trasmette segnali a quello adiacente. Come una porta da cui si può solo uscire da un' area di sicurezza, ma non entrare, la terminazione sinaptica sorveglia un passaggio a senso unico, una sinapsi, tra i neuroni.
Per convenzione, la direzione ”verso valle” dalla sinapsi è il flusso di segnale da un neurone al successivo , sul tragitto dal cervello ai muscoli. Il virus della rabbia scorre invece “ controcorrennte” perche deve raggiungere il cervello. Così inganna il recettore che lo lascia entrare in un motoneurone dalla porta di uscita.
I virus in genere sono abili nell'usare le cellule dei loro ospiti per i propri fini, ma pochi battono i viirus della rabbia in questo compito. Una volta all' interno l' intruso si sbarazza del travestimento glicoproteico e il suo RNA comincia a lavorare, usando materiali e metabolismo della cellula per produrre copie di se stesso e di tutte le sue proteine caratteristiche. Poi queste componenti si riassemblanoper creare virioni figli.
Se da un lato molte specie di virus si replicano così rapidamente da costringere la cellula infettata a esplodere liberando i virioni nello spazio tra le cellule, il virus della rabbia regola la sua riproduzione generando un numero di virioni figli sufficienti per continuarea procedere. In questo modo evita di causare danni che allertino il sistema immunitario. Lascia intatta la cellula ospite e attraversa una sinapsi verso un neurone a monte. Questa sua furtività fa si che la malattia abbia un periodo di incubazione piuttosto lungo, senza sintomi, che nell' essere umano dura da uno a tre mesi.
Appena transitato in un nuovo neurone, il virione ricomincia il processo, spogliandosi, ricopiando se stesso e riassemblando virioni figli che si spostano verso il prossimo neurone a monte avanzando lentamente attraverso il sistema nervoso del midollo spinale fino a raggiungere il cervello.
All' inizio del secolo alcuni gruppi di ricerca hanno tentato di usare il virus della rabbia come tracciante dei circuiti neuronali, ma era problematico : come distinguere i primo balzo dell' invasore da un neurone al successivo, dal secondo balzo e così via ?
Inizialmente i ricercatori hanno risolto il problema eseguendo l' eutanasia sugli animali da laboratorio poco dopo l' infezione, permettendo così al virus di diffondersi in una o due sinapsi appena.
Ma in tempi recenti i biologi molecolari hanno sviluppato la capacità di manipolare il DNA: scambiare geni è ormai routine , come preparare il caffè in laboratorio ( non direi proprio, viste le difficoltà dei genetisti fai da te dei corsi CRISPR )
Il virus della rabbia originario non ha però DNA da manipolare ma solo RNA. L' avvento della genetica inversa che ribalta il normale ciclo genetico generando RNA dal DNA, ha aggirato l' ostacolo....
Ora, non mi voglio dilungare in questa sede nei dettagli specifici di come è proseguita questa ricerca. Mi basta accennare che per raggiungere il risultato finale, cioè ottenere una mappa dei circuiti neuronali di un cervello, si è adottato l' escamotage di inserire nel virus, come tracciante di un percorso, una glicoproteina fluorescente e successivamente di adottare la collaborazione del virus della Leucosia aviaria ASLV che colpisce solo gli uccelli.
Tutto questo si puo leggere sul numero Le Scienze di gennaio 2019.
Detto e scritto questo, non si puo fare a meno di considerare la complessità evolutiva raggiunta dai primi protozoi tre miliardi di anni fa fino ad oggi, in tutte le sue forme.
E ancor più, come onde e particelle nell' universo collassino in “materia”, atomi di diversi elementi che si uniscono poi a formare molecole, proteine , enzimi, acidi uniti a loro volta nel costituire complessi di sostanze autoreplicanti chiamati cellule, in quel fenomeno che designamo come VITA !

Levy Strauss

E’ il padre fondatore dell’antropologia contemporanea, soggiorna al fianco dei migliori scrittori francesi di tutti i tempi accolti nella Pléiade. Claude Lévi-Strauss festeggia i suoi cent’anni nello storico appartamento al sedicesimo arrondissement di Parigi, sulla rive droite della Senna. Etnologo polimorfo, filosofo strutturalista e scrittore esaltante, questo “anarchico di destra” (come si è sempre definito) è una “pietra miliare nella conoscenza dell’uomo”, per usare la definizione di Simone de Beauvoir. Classe 1908, figlio di francesi ed ebreo da parte del nonno rabbino di Versailles, esiliatosi a New York nel 1941 in seguito alle leggi razziali di Vichy, “l’ultimo dei giganti” secondo il Nouvel Observateur e “colui che ha rivoluzionato il pensiero” per Le Point, Lévi-Strauss in questi giorni è stato esaltato da molti in quanto guru della “differenza” e teorico della “conoscenza dell’Altro”. La Repubblica, per citare uno dei grandi giornali che si sono occupati di lui, ne parla come del distruttore degli “angusti schemi eurocentrici che identificavano la civiltà occidentale con la civiltà tout court”. Una specie di relativista ante litteram.

 Lévi-Strauss è stato ben altro. Certamente un apologeta della civiltà occidentale, come dimostrano molte sue affermazioni, ma soprattutto il profeta dimenticato dello scontro di civiltà fra l’islam e le altre fedi. Le pagine più fervorose di questo “astronomo delle costellazioni umane” (autodefinizione) sono state cancellate. Come quelle terribili in cui afferma, era mezzo secolo fa, che “la Francia è in procinto di diventare musulmana”.

 Una parte di ragione ce l’ha certamente Emmanuel Lévinas, che pure ha moltissimo in comune con lui, quando scrive che “Tristi tropici” è il libro “più ateo che sia stato scritto ai nostri giorni, il libro più disorientato e disorientante”. La sua opera è un ibrido di alessandrinismo e illuminismo. Politica e metafisica, teologia e materialismo, mito e modernità si mescolano in una speculazione stravagante. Lévi-Strauss però ha sempre combattuto la doxa dell’insignificanza della religione ed è lontanissimo dal pensiero unico intriso di prepotenza e di indifferenza. Il sacro oggi non è soltanto distorsione mitica, è il mondo moderno che è stato risacralizzato a viva forza dal purismo dell’islam. E il patologo Lévi-Strauss nel suo capolavoro parla proprio di questo. Lévi-Strauss non ha commesso l’errore di René Guénon, che ci rifila il Dio unico mistico e indifferenziato. E’ stato uno dei primi a spiegare la differenza, forse inconciliabile, fra il monolitismo maomettano e il monoteismo di origine biblica.

Nell’ottobre del 2002, in un’intervista al settimanale francese Nouvel Observateur, Claude Lévi-Strauss affermò che “siamo contaminati dall’intolleranza islamica”. Nessuno gli diede risalto, così come le sue pagine più cupe e sfavillanti sull’islam non hanno fatto scuola. Classicista e modernista allo stesso tempo secondo il suo studioso Vincent Debaene, il grande antropologo francese ha consegnato le proprie intuizioni più acute sulla civiltà coranica ai “Tristi tropici”, il suo libro più celebrato, del lontano 1955. Un volume steso sotto le insegne di una nota tutta apocalittica (“il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui” e “questo non è un mondo che amo”).

 In epoca di laicizzazione araba e di nasserismo nazionalista, quando l’islam non aveva ancora conosciuto il grande risveglio suggellato dalla rivoluzione khomeinista in Iran e mentre sembravano compiersi le magnifiche sorti della decolonizzazione, Lévi-Strauss si recò ai piedi delle montagne del Kashmir, fra Rawalpindi e Peshawar. La regione dove oggi si è rifugiata la dirigenza di al Qaida. Dell’islam dice che lo atterrisce “la preoccupazione di fondare una tradizione accompagnata alla frenesia di distruggere tutte le tradizioni anteriori”. L’antropologo comprese che ogni traccia dei culti passati era stata abbattuta e raschiata in una frenesia di fare spazio al “vuoto”. Un termine usato spesso nel libro per indicare la civiltà islamica. Come il vuoto dei due Budda di Bamiyan, in Afghanistan, con i loro bellissimi lineamenti orientali e le tuniche greche e i loro ornamenti che ne ricoprono le vesti – rossa quella del Budda grande, blu quella del piccolo – sono lì a ricordare l’efferata campagna di liquidazione culturale messa in atto dai talebani.

 Si dice che soltanto nel 1989 Lévi-Strauss avesse preso atto dell’attacco islamico all’occidente. Falso, basta leggere le ultime pagine di questo libro lirico e struggente e capire che Lévi-Strauss era consapevole fin dall’inizio di una frattura insanabile. Sono parole terribili, non mediate dalla pietas, suonano come una condanna: “Sul piano morale ci si trova di fronte all’equivoco di una tolleranza ostentata, a danno di un proselitismo il cui carattere compulsivo è chiaro. Il contatto con i non-musulmani li mette in angoscia. Il loro genere di vita provinciale si perpetua sotto la minaccia di altri generi di vita, più liberi e più facili del loro”. Lévi-Strauss vedeva una stasi permanente. “Il Profeta li ha condannati a una situazione di crisi permanente, che risulta dalla contraddizione fra la portata universale della rivelazione e l’ammissione della pluralità delle fedi religiose. Tutto l’islam sembra un metodo per produrre nello spirito dei credenti conflitti insormontabili, salvo liberarli poi proponendo loro soluzioni di una grande (ma troppo grande) semplicità. Con una mano li spinge e con l’altra li trattiene sull’orlo dell’abisso”.

 Il cristianesimo ha perso l’occasione di un’osmosi con il buddismo che “ci avrebbe cristianizzati di più e in un senso più cristiano perché saremmo risaliti al di là dello stesso cristianesimo. Fu allora che l’occidente smarrì la sua opportunità di restare femmina”. Lévi-Strauss pensa al Maometto che scacciò il femminile dal pantheon del suo “tawhid”, monoteismo, relegandolo nel purgatorio di un chador claustrofobico.

E’ implacabile la sua analisi della ghettizzazione femminile nelle società islamiche. “Vi preoccupate per la virtù delle vostre spose o delle vostre figlie mentre siete fuori città? Niente di più semplice, velatele e chiudetele in un chiostro. Così si arriva al burqa moderno, simile a un apparecchio ortopedico. Il solo modo per essi di mettersi al riparo dal dubbio e dall’umiliazione, consiste in un annientamento di questo prossimo, considerato come testimone di un’altra fede e di un’altra condotta”. Lévi-Strauss parlava del burqa moderno molto prima che Kabul e Teheran si trasformassero in centrali della sottomissione femminile. “Se un corpo di guardia potesse essere religioso, l’islam sarebbe la sua religione ideale”, ironizza Lévi-Strauss. “Quegli ansiosi sono anche degli uomini d’azione; presi fra sentimenti incompatibili, compensano l’inferiorità di cui risentono con delle forme tradizionali di sublimazione associate da sempre all’anima araba: gelosia, fierezza, eroismo”.

 Gigante del pensiero occidentale, Lévi-Strauss ha avuto il dono di capire lo spirito islamico contemplando le tombe (“le uniche cose che hanno lasciato in India”) e i mausolei, l’abolizione della sensualità e le abluzioni rituali, la promiscuità maschile nella vita spirituale e l’arte islamica iconoclastica. In lui non manca neppure un’analisi dell’impossibile separazione nell’islam tra la sfera temporale e quella religiosa. “La politica diventa teologia”. Di fronte alla benevolenza universale del buddismo, al desiderio cristiano del dialogo, l’intolleranza di una parte dei popoli islamici secondo Lévi-Strauss fa sì che l’islam sia inevitabilmente “rimasto cristallizzato nella contemplazione di una società che era reale sette secoli fa. L’islam ha tagliato in due un mondo più civile. Vive in uno spostamento millenario”.

 Lévi-Strauss non ha mai usato infingimenti retorici. A volte le sue pagine sulla discendenza del Profeta sono di una inesorabilità sconcertante: quando dice che l’islam si configura come una potenza non meno violenta che anacronistica giacché per affermarsi ha dovuto frapporsi come un ostacolo insormontabile a quell’incontro fra l’occidente e l’oriente che sembrerebbe inscritto nella manifesta affinità delle loro due principali culture e religioni: la giudaico-cristiana e la buddista. E’ impressionante la sincronia fra l’attentato a Mumbai e il centenario di Lévi-Strauss: “Oggi io contemplo l’India attraverso l’Islam – scriveva già in “Tristi tropici” – quella di Budda, prima di Maometto, il quale si erge fra la nostra riflessione e le dottrine che gli sono più vicine come un villano che impedisce un girotondo in cui le mani, predestinate ad allacciarsi, dell’oriente e dell’occidente, siano state da lui disgiunte. Quale errore stavo per commettere sulla traccia di quei musulmani che si proclamano cristiani e occidentali e pongono nel loro oriente la frontiera fra i due mondi! I due mondi sono fra loro più vicini di quanto l’uno e l’altro non lo siano al loro anacronismo (anacronismo dell’islam, ndr).  L’evoluzione razionale è inversa a quella della storia. L’islam ha tagliato in due un mondo più civile. Che l’occidente risalga alle fonti del suo laceramento: interponendosi fra il buddismo e il cristianesimo, l’islam ci ha islamizzati”.

 Trentotto anni fa Claude Lévi-Strauss tenne una conferenza su “Razza e cultura” su richiesta dall’Unesco e nel quadro di un programma di lotta contro il razzismo. Vale la pena rileggere alcune delle frasi conclusive di quella conferenza: “Se l’umanità non vuol rassegnarsi a diventare la consumatrice sterile dei soli valori che ha saputo creare nel passato, capace di dare alla luce soltanto opere bastarde, e invenzioni grossolane e puerili, dovrà reimparare che ogni vera creazione implica una certa sordità all’appello degli altri valori, la quale può giungere fino al loro rifiuto se non anche alla loro negazione. Perché non si può, allo stesso tempo, fondersi nel godimento dell’altro, identificarsi con lui e mantenersi diverso. Se è pienamente riuscita, la comunicazione integrale con l’altro condanna, a più o meno breve scadenza, l’originalità della sua e della mia creazione. Le grandi epoche creatrici furono quelle in cui la comunicazione era divenuta sufficiente affinché dei partner lontani si stimolassero, senza essere tuttavia così frequente e rapida da ridurre gli ostacoli indispensabili tra gli individui come tra i gruppi, al punto che scambi troppo facili parificassero e confondessero le loro diversità. Certo il ritorno al passato è impossibile, ma la via in cui gli uomini si sono oggi incamminati accumula tensioni tali che gli odii razziali offrono una ben povera immagine del regime di intolleranza esacerbata che rischia di istaurarsi domani, senza che neppure gli debbano servire di pretesto le differenze etniche occorre capire che le cause sono molto più profonde di quelle semplicemente imputabili all’ignoranza e ai pregiudizi”. Sono parole preveggenti.

 In poche righe Lévi-Strauss faceva a pezzi l’assunto dell’equivalenza morale contemporanea per cui, volendo mescolare le diversità sulla base del principio che esse sono tutte assolutamente alla pari – e che nessuna ha il diritto di affermare i propri principi fondamentali bensì soltanto quello di difenderne l’assoluta intangibilità – il relativismo multiculturale finisce per produrre il contrario del suo obiettivo umanitario: un regime di divisione permanente, di “comunitarismo” e di autentica “apartheid” etnica e culturale, che è il brodo di coltura delle ostilità più feroci.

 Nel 1985 Lévi-Strauss rilasciò un’intervista in cui era nitidissima ormai la sua visione apologetica dell’occidente: “Ho cominciato a riflettere in un’epoca in cui la nostra cultura aggrediva altre culture – confessò all’epoca lo studioso francese – e a quel tempo mi sono eretto a loro difensore e testimone. Oggi ho l’impressione che il movimento si sia invertito e che la nostra cultura sia finita sulla difensiva di fronte a minacce esterne, fra le quali figura probabilmente l’esplosione islamica. E di colpo mi sono ritrovato a essere un difensore etnologico e fermamente deciso della mia stessa cultura”. In questo senso ha ragione il quotidiano inglese Times quando scrive che “è il secolo di Lévi-Strauss”. Siamo tutti figli di questo rabbi dell’antropologia.